“La Comunità”: Bisogno o dipendenza




Etimologicamente il contrario di comunità è immunità, e già da questo si possono capire tante cose: perché ci sia immunità, bisogna non rischiare, evitare il contatto e il contagio, sentirsi sani e credere che attorno a noi gli altri siano ammalati.

Il presupposto della comunità, invece, è la voglia di rischiare, rischiare di perdere alcune certezze che si rivelano fragili e senza fondamento di fronte alla grande verità dell’incontro con l’altro, rischiare di scoprire che non sono veramente felice e non sono autosufficiente, ma ho bisogno di ciò che l’altro è ed ha da darmi, rischiare la possibilità che dopo aver incontrato l’altro io non sia più esattamente la stessa persona di prima, rischiare di scoprire che l’altro potrebbe essere più sano di me, ed io più malato di lui, rischiare di scoprire che non sono io il centro dell’universo, ma che il centro ci trascende tutti e la vera felicità sta nel vivere non chiusi in noi stessi, ma aperti alla pienezza della realtà di cui io e l’altro siamo due tasselli che devono incastrarsi tra di loro e con il resto delle cose.



Nella parola comunità ci sono anche le parole comune (o comunione) e unità. La parola comune mette l’accento su ciò in cui io e l’altro siamo simili: incontrare l’altro e scoprire che abbiamo tante cose in comune, scoprire che siamo simili, è un presupposto fondamentale per amare e per essere felici. La parola unità invece non va confusa con uniformità: l’uniformità è un campo di margherite bianche, l’unità è un’infinità di forme e colori che stanno in maniera armoniosa in un unico campo. L’amore diventa veramente tale, quindi, solo quando, dopo aver conosciuto le cose che ho in comune con l’altro, imparo ad accettare le differenze tra me e l’altro come ricchezze, e non sento il bisogno di uniformarle, ma semplicemente di metterle in relazione.

E infatti, la comunità c’è veramente quando si capisce che il vero centro dell’universo non sono le cose, ma la relazione tra le cose, e che il vero me stesso non sono io, ma me in contatto con gli altri. Quando sto con gli altri non perdo la mia identità, ma la trovo, perché il mio vero io non è il nucleo, ma le sinapsi.
Qual è il numero ideale per formare una comunità? Il numero ideale è sempre e comunque il numero massimo raggiungibile in un determinato contesto; per questo una vera comunità non ha mura di cinta né torri di guardia, non è un sistema chiuso ma una realtà accogliente e sempre in divenire. Tuttavia, se sono solo in un carcere o in un letto di malattia, da solo posso essere pienamente comunità, perché posso ottenere spiritualmente ciò che mi è impossibile fare fisicamente, unirmi cioè alla devozione e alla ricerca di Dio di milioni di altri esseri umani, che sono fuori dalle mura o dal letto, ma che non necessariamente sono più liberi di me.

La comunità e l'invito a uscire dell'egoismo, dell'Ego che si crede sicuro nel se stesso, e questa falsa sicurezza diventa in realtà l'accettazione di vivere nell'ignoranza della paura e l'arroganza. E il peggio, la perdita della possibilità di nuove conoscenze, della Divina Gnosi e della mancanza di contatto con l'Essere Intimo.

Comunità è sentirmi in mezzo a un gruppo di persone, non uno isolato, diverso, bensì unito agli altri in coscienza, è nel Ricordo dell’Essere, parte di un tutto...

Nuova Accademia Gnostica S.A.W. di Firenze

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